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sabato 17 maggio 2025

DISINCANTATO — il Blog di Adolfo Santoro

Adolfo Santoro

Vivo all’Elba ed ho lavorato per più di 40 anni come psichiatra; dal 1991 al 2017 sono stato primario e dirigente di secondo livello. Dal 2017 sono in pensione e ho continuato a ricevere persone in crisi alla ricerca della propria autenticità. Ho tenuto numerosi gruppi ed ho preso in carico individualmente e con la famiglia persone anche con problematiche psicosomatiche (cancro, malattie autoimmuni, allergie, cefalee, ipertensione arteriosa, fibromialgia) o con problematiche nevrotiche o psicotiche. Da anni ascolto le persone in crisi gratuitamente perché ritengo che c’è un limite all’avidità.

La poesia contro gli orrori di CISL, Governo e sionisti

di Adolfo Santoro - sabato 17 maggio 2025 ore 09:00

Bertrand Russell concludeva la sua autobiografia con le seguenti parole:

Posso aver creduto che la via da percorrere per giungere a un mondo popolato di esseri umani liberi e felici fosse più breve di quanto non sia, ma non mi ingannavo nel pensare che un tale mondo è possibile e che vale la pena di vivere cercando di abbreviare la distanza che ce ne separa. Ho vissuto seguendo una visione personale e sociale a un tempo. Amare ciò che è nobile, ciò che è bello, ciò che è umano; permettere a momenti di intuizione di recare saggezza nel momento dell’azione. Concepire con la mente la società che si dovrà creare: una società nella quale gli individui cresceranno liberi e l’odio, l’avidità e l’invidia si estingueranno perché non vi sarà più nulla che possa nutrirli. Queste cose io le credo e il mondo, con tutti i suoi orrori, non ha scosso la mia fede.

Queste parole di Bertrand Russell ci permettono di comprendere e graduare l’orrore in una scala tra misfatti, crimini e genocidio.

A quale categoria appartiene la segretaria della CISL, quella che cinguettava nelle carte dell’inchiesta Ambiente Svenduto con l’uomo dei Riva, i padroni dell’ILVA di Taranto, che diffondevano la facilitazione alla morte da tumore? Quella che ora cinguetta con il governo Meloni che, a suo dire, avrebbe finora dato un’importante attenzione al dialogo? Quella che, pur sapendo che in Italia sono 500mila le denunce annuali di infortunio sul lavoro, che sono quasi 1000 i morti (in media 3 al giorno) e che la causa fondamentale di queste morti sono gli appalti e i sub-appalti (dove l’impresa appaltante non ha responsabilità sulle morti che avvengono in aziende appaltate, prive di solidità finanziaria e spesso non in regola con le norme antinfortunistiche), sabota i referendum, tra i quali il quarto quesito, quello che vuole abrogare le norme in essere ed estendere la responsabilità dell’imprenditore committente al fine di garantire maggiore sicurezza sul lavoro?

A questa domanda rispondeva Francesco De Gregori in Pablo:

E il collega spagnolo, non sente e non vede ma parla del suo gallo da battaglia e la latteria diventa terra.

Prima parlava strano e io non lo capivo, però il pane con lui lo dividevo, e il padrone non sembrava poi cattivo.
Hanno pagato Pablo, Pablo è vivo ...

E se un giorno è caduto, è caduto per caso pensando al suo gallo o alla moglie ingrassata, come da foto.

Prima parlava strano e io non lo capivo, però il fumo con lui lo dividevo, e il padrone non sembrava poi cattivo.
Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo! Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo! Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo!

A quale categoria appartiene il Governo, che fino ad oggi ci dice che tutto va bene in Italia e che fino a l’altro ieri ha taciuto sul genocidio degli estremisti di Israele (barricandosi dietro al Chi ha iniziato per primo?)?

A quale categoria appartengono i sionisti di Israele e di tutto il mondo? La risposta è, anche qui, nella poesia, che fin dal 1948 è stato il genere letterario per eccellenza nella Palestina occupata, perché Crescere a Gaza è fonte di ispirazione per i poeti: la vita qui è poesia fatta a pezzi e sparsa ovunque. È soprattutto attraverso i festival di poesia che si diffondevano la poesia e, insieme, il sumud, lo spirito di perseveranza di fronte alle avversità, lo spirito di resistenza, espresso in Resteremo qui di Tawfik Zayyad, perciò arrestato:

Resteremo qui

Noi custodiremo l’ombra del fico e degli olivi […]

Se saremo assetati spremeremo il deserto

E mangeremo polvere se avremo fame

Ma non ci muoveremo!

Qui abbiamo un presente, un passato e un futuro…

Le poesie di questo periodo iniziale non evocano solo la Palestina e la sua lotta per l’indipendenza, ma anche altre cause della lotta anticoloniale, in particolare quella del popolo algerino o degli indiani d’America. In una poesia del 1970, Salem Jubran chiamava in causa Jean-Paul Sartre, schierato a favore della causa anticolonialista algerina, ma rimasto zitto sulla colonizzazione della Palestina:

A JEAN-PAUL SARTRE
Se un bambino venisse ucciso, e i suoi assassini gettassero

il suo corpo nel fango,

lei non proverebbe rabbia? Cosa direbbe?

Io sono un figlio della Palestina,

muoio ogni anno,

vengo ucciso ogni giorno,

ogni ora.

Avanti, guardi bene la varietà di nefandezze,

osservi ogni foto, ogni immagine

la meno orribile è quella del mio sangue che scorre.

Dica qualcosa:

Perché questa improvvisa indifferenza?

Allora, cos’è, non ha niente da dire?

La poetessa Fadwa Tuqan scriveva:

Mi basta morire sulla mia terra

essere sepolta in essa

sciogliermi e svanire nel suo suolo

e poi germogliare come un fiore

colto con tenerezza da un bimbo del mio paese.

Mi basta rimanere

nell’abbraccio del mio paese

per stargli vicino, stretta, come una manciata

di polvere

ramoscello di prato

un fiore.

Ma con l’occupazione israeliana della Striscia di Gaza del 1967 le cose cambiano e Mahmud Darwish scriveva:

Gaza non si vanta delle sue armi, né del suo spirito rivoluzionario, né del suo bilancio. Lei offre la sua pellaccia dura, agisce di spontanea volontà e versa il suo sangue. Gaza non è un fine oratore, non ha gola. È la sua pelle a parlare attraverso il sangue, il sudore, le fiamme. Per questo, il nemico la odia fino alla morte, la teme fino al punto di commettere crimini e cerca di affogarla nel mare, nel deserto del sangue …

I nemici possono avere la meglio su Gaza. (Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola).

Possono tagliarle tutti gli alberi.

Possono spezzarle le ossa.

Possono piantare carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini. Possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue.

Ma lei:

non ripeterà le bugie.

Non dirà sì agli invasori.

Continuerà a farsi esplodere.

Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio. Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.

È il tempo dell’esodo, come testimoniava la poetessa, May Sayigh, costretta a lasciare Gaza e a seguire l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nelle sue migrazioni:

… Gli aerei da guerra ti scelgono, ti scoprono,

piantano dentro di te la loro oscurità.

Come inizierai la storia del raccolto

da quelle ultime visioni annebbiate?

Gli aerei da guerra ti selezionano

all’inizio del sonno

alla fine del sonno.

Quante volte il cielo ti è esploso di odio addosso?

Quante volte sei stato preso da parte?

A quanti massacri sei sopravvissuto?

Ora, raccogli tutte le ferite, rifugiandoti nella morte,

indossando sogni come ali.

È il tempo dell’assedio negli affollatissimi campi-profughi, descritti anche da Najwan Mahmoud Darwish:

Se entri in quella strada, a lato della città,

quella che porta al campo profughi,

se trovi bambini all’uscita di quella scuola che somiglia a una prigione,

se ne trovi sette sulla soglia del silenzio che osservano,

se vedi un bambino smilzo dagli occhi che brillano dell’intelligenza del mondo intero,

avrai trovato il mio amico Taysir.

I suoi avevano un paese che fu rubato in pieno giorno.

Potrai scorgere negli occhi suoi inquieti la vivacità degli uccelli del paese rubato.

Le case di cemento,

il ricordo dello zinco,

il gracchiare spaventoso delle radio dell’esercito occupante durante le settimane di coprifuoco,

non hanno intaccato il brillare dei suoi occhi.

Una sola volta aveva visto il mare. Nulla lo convincerà a non andarci ancora.

Nei lunghi giorni di coprifuoco lo illudevano: “Finito il coprifuoco ti porteremo al mare”.

Una sera, finito il coprifuoco, gli hanno detto: “Il mare è chiuso a quest’ora. Va’ a dormire!”.

Non aveva dormito quella notte, immaginava un vecchio

chiudere il mare con un’enorme lastra di zinco che si estendeva dalla stella dell’orizzonte alla sabbia della spiaggia,

e lo serrava con il lucchetto grande, più grande di quello del negozio del padre in via Omar al-Mukhtar.

Aveva immaginato il vecchio tornare poi a casa.

Se entri in quella strada al lato della città

quella che porta al campo profughi

se scorgi due occhi che brillano dell’intelligenza del mondo intero,

chiedi, te ne prego, se il mare di Gaza è stato aperto

o se è chiuso ancora.

Ed ancora Darwish:

Il tempo a Gaza non è relax, ma un assalto di calura cocente.

Perché i valori a Gaza sono diversi, completamente diversi.

L’unico valore di chi vive sotto occupazione è il grado di resistenza all’occupante.

Questa è l’unica competizione in corso laggiù.

E Gaza è dedita all’esercizio di questo insigne e crudele valore che non ha imparato dai libri o dai corsi accelerati per corrispondenza, né dalle fanfare spiegate della propaganda o dalle canzoni patriottiche.

L’ha imparato soltanto dall’esperienza e dal duro lavoro che non è svolto in funzione della pubblicità o del ritorno d’immagine.

Gaza non si vanta delle sue armi, né del suo spirito rivoluzionario, né del suo bilancio.

Lei offre la sua pellaccia dura, agisce di spontanea volontà e offre il suo sangue.

Gaza non è un fine oratore, non ha gola.

È la sua pelle a parlare attraverso il sangue, il sudore, le fiamme.

Per questo, il nemico la odia fino alla morte, la teme fino al punto di commettere crimini e cerca di affogarla nel mare, nel deserto, nel sangue.

Per questo, gli amici e i suoi cari la amano con un pudore che sfiora quasi la gelosia e talvolta la paura, perché Gaza è barbara lezione e luminoso esempio sia per i nemici che per gli amici. […]

La resistenza a Gaza non si è trasformata in un’istituzione.

Non ha accettato ordini da nessuno, non ha affidato il proprio destino alla firma né al marchio di nessuno.

Non le importa affatto se ne conosciamo o meno il nome, l’immagine, l’eloquenza.

Non ha mai creduto di essere fotogenica, né tantomeno di essere un evento mediatico.

Non si è mai messa in posa davanti alle telecamere sfoderando un sorriso stampato.

Lei non vuole questo, noi nemmeno.

La ferita di Gaza non è stata trasformata in pulpito per le prediche.

La cosa bella di Gaza è che noi non ne parliamo molto, né incensiamo i suoi sogni con la fragranza femminile delle nostre canzoni.

Per questo Gaza sarà un pessimo affare per gli allibratori.

Per questo, sarà un tesoro etico e morale inestimabile per tutti gli arabi.

La cosa bella di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono, niente la distoglie.

Niente allontana il suo pugno dalla faccia del nemico.

Né il modo di spartire le poltrone del Consiglio Nazionale, né la forma di governo palestinese che fonderemo dalla parte est della Luna o nella parte ovest di Marte, quando sarà completamente esplorato.

Niente la distoglie.

È dedita al dissenso: fame e dissenso, sete e dissenso, diaspora e dissenso, tortura e dissenso, assedio e dissenso, morte e dissenso.

I nemici possono avere la meglio su Gaza.

(Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola.)

Possono tagliarle tutti gli alberi.

Possono spezzarle le ossa.

Possono piantare carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini.

Possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue.

Ma lei: non ripeterà le bugie.

Non dirà sì agli invasori.

Continuerà a farsi esplodere.

Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio.

Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.

Nel 2008, a seguito della delusione causata dalla corruzione dell’OLP e del conseguente fallimento degli Accordi di Oslo (che così lasciava spazio all’ascesa dei collusi Hamas e Netanyahu) Yousef al-Deek irrideva:

Chi non rompe le scatole

O non vede come la scimmia si aggira furtiva,

Venga nello Stato di Abbas.

Uno Stato ormai addomesticato

dove non c’è autorità nell’“Autorità”

Se un ladro non si presenta in tribunale

al suo posto c’è il vicino o la moglie

perché il cinguettio degli uccellini sulle linee telefoniche

potrebbe suonare come “Hamas!”

Il nostro metro di giustizia si applica ad ogni creatura

rendendo la scimmia simile al suo padrone,

la canaglia… un poliziotto (...)

Grazie a Dio

dopo le umiliazioni... il travaglio... il torpore,

abbiamo partorito... un Capo di Stato

Oh, popolo: ora abbiamo uno Stato.

Nel 2011 Rafeef Ziadeh, in risposta a un giornalista che le aveva chiesto di spiegare perché i palestinesi insegnassero l’odio ai loro figli, scrisse Noi insegniamo la vita, signore (We teach life, sir), recitandola a Londra in un video che diventerà popolarissimo:

Oggi, il mio corpo era un massacro trasmesso in TV.

Oggi, il mio corpo era un massacro che doveva stare dentro frasi ad effetto e un numero limitato di parole.

Oggi, il mio corpo era un massacro trasmesso in TV che doveva stare dentro frasi ad effetto e un numero limitato di parole pieno di statistiche per replicare con risposte ponderate.

E così ho perfezionato il mio inglese e imparato le risoluzioni ONU.

Eppure, mi ha chiesto: “Signora Ziadah, non crede che tutto si risolverebbe se solo smetteste di insegnare tanto odio ai vostri figli?”. (Pausa)

Cerco dentro di me la forza per essere paziente, ma la pazienza non è esattamente quello che ho sulla punta della lingua mentre le bombe cadono su Gaza. La pazienza mi ha appena abbandonato. (Pausa. Sorriso.)

Noi insegniamo la vita, signore. Rafeef ricordati di sorridere... (Pausa) Noi insegniamo la vita, signore.

Remi Kanazi scriveva Out of season

… non è stagione per i tuoi proverbi

nient’altro che aneddoti

racconti di una terra

senza un popolo (...)

non ti interessa la pace

vuoi solo pezzi …

questo puzzle

non avrà un lieto

fine per

te

e Nakba, in cui non c’è più il rimpianto per la catastrofe del 1948, ma la consapevolezza della frattura ecologica che affligge non solo la Palestina, ma l’intero Pianeta:

… lei non aveva dimenticato

noi non abbiamo dimenticato

noi non dimenticheremo

nelle vene radici

di ulivi

torneremo
non è una minaccia

né desiderio

speranza
o sogno

è una promessa

Naomi Shihab Nye scriveva Even at war:

Fuori, le arance riposano, le melanzane,

i campi di salvia selvatica. Un ordine del governo dice:

“Non potrete più raccogliere quella salvia

che dà identità e sapore alla vostra vita”.

E tutte le mani sorridono.

Nel 2011 l’arabo-israeliano Marwan Makhoul ha scritto:

Per scrivere una poesia non politica

devo ascoltare gli uccelli,

e per sentire gli uccelli

bisogna far tacere gli aerei da caccia…

Scrivere diventa la prova che non siamo veramente indifesi. Agisce come un antidolorifico, alleviando il dolore della rabbia, forse perché chi scrive sa che la poesia è un’arma indiretta per difendere il suo popolo.

E Makhoul scriveva al figlio atteso che non c’è più tempo: non indugiare nel ventre di tua madre, figlio mio, affrettati a venire […] perché la guerra è scoppiata e temo che tu non possa vedere la tua patria come l’ho desiderata per te.

Sempre Makhoul ha scritto nel 2023 nella terribile prigione di Gaza, dove anche guardare il cielo, unica speranza e ultima via di fuga”, significa scoprirlo sorvegliato dal ronzio dei droni, dalla fame degli aerei da caccia, anche le poesie sono essenziali, taglienti, calcinate, dilaniate, smembrate.

Nel 1916 Odeh Amarneh ha scritto La mia patria:

La mia patria è una ferita aperta da mille anni

inchiostro caldo che scrive con dignità

una bella e triste melodia

Manda in estasi la coscienza ingannevole del mondo

Fa cadere lacrime di coccodrillo

La mia patria è un cavallo purosangue

che ha dato un nuovo senso al significato della pazienza

Cavalca con il vento su una strada impervia

E non arriva … arriverà

Resiste e sopporta gli schiamazzi e gli scherzi del mondo

E ci ride sopra

La mia patria è la densità della pazienza… lo stesso colore… lo stesso sapore

La mia patria un milione di amanti… un milione di sognatori

Vogliono che la mia patria sia un pallone ottagonale

Calciato da un bambino viziato…

Per far ridere

le scimmie e porci.

Il giovane poeta di Gaza Mosab Abu Toha si domandava nel 2022 Cos’è allora casa?:

Cos’è casa:

è l’ombra degli alberi sulla via della scuola prima che venissero sradicati.

È la foto in bianco e nero del matrimonio dei miei nonni prima che i muri crollassero.

È il tappetino da preghiera di mio zio su cui dormivano in notti invernali dozzine di formiche prima che fosse saccheggiato ed esposto in un museo.

È il forno in cui mia madre cuoceva il pane e arrostiva il pollo prima che una bomba riducesse la nostra dimora in cenere.

È il caffè in cui guardavo le partite di calcio e giocavo –

Mio figlio mi interrompe: come può una parola di appena quattro lettere racchiudere tutto questo?

Darren Tatour, condannata da un tribunale israeliano e incarcerata per la poesia Resisti mio popolo resisti loro, ha scritto dal carcere Allucinazione di una poetessa prigioniera in isolamento.

Non c’è luce nella mia prigione

Né sole né finestra

Non c’è nulla qui

Tranne il carceriere una porta e le manette

Ho chiuso gli occhi ed è giunta la luce

Dall’amore per la mia patria nascono le cose

L’amore in prigione è la mia libertà

E la passione nella mia prigione è cielo

Sono in isolamento

E le penne sono vietate

Né inchiostro né carta

Il cuore scrive memorizza i versi

La poesia in prigione è luce e fuoco

La poesia nella mia prigione

É nutrimento

È acqua e aria

Oggi, dopo il criminale attacco di Hamas del 7 ottobre e il genocidio di Israele con le incalcolabili decine di migliaia di morti (di cui il 70% donne e bambini), con gli oltre due milioni di sfollati e con la distruzione di case, scuole, ospedali, luoghi di culto e rifugi dell’ONU, è in corso la lotta per la sopravvivenza

Refaat Alareer, ucciso in un attacco israeliano su Gaza nel dicembre 2023, poco prima di morire, scriveva:

Se io dovrò morire,

tu dovrai vivere

per raccontare la mia storia

vendere le mie cose

comprare un pezzo di stoffa

e qualche filo

(magari bianco con una lunga corda)

così che un bimbo, da qualche parte a Gaza

mentre fissa il cielo

in attesa di suo padre

-morto all’improvviso senza dire addio

a nessuno

né alla sua pelle

né a se stesso-

veda il mio aquilone

quello che tu hai costruito

volare alto

e pensare, per un attimo, che sia un angelo

a riportare amore.

Se io dovrò morire,

che porti allora una speranza

che la mia fine sia un racconto.

Omar Moussa, un poeta di 23 anni che vive nel più grande campo profughi di Gaza, scrive:

Di solito la scrittura letteraria, con le sue diverse forme, ci apre una finestra che ci permette di respirare soprattutto quando si tratta di parlare di quello che sta succedendo dentro di noi, come pensi tu e penso io, e quando lo scrivi, sembra che ci siamo rilassati … Se vediamo la poesia come una porta per fuggire da Gaza, sembra un lusso che la gente di Gaza non ha. La realtà è realtà: non puoi ignorarla, e scrivere poesie è solo per imbrogliare questa realtà. Qui c’è la morte, le macerie e un po’ di vita, ma tra le concrezioni della realtà c’è un fiore che cresce, ed è il fiore della poesia ... Forse leggono le mie poesie, ma tutto quello che devo fare è scrivere. Se voglio mandare un messaggio al mondo esterno, direi: ‘Ci sono quelli che vivono, nonostante tutta la morte intorno a noi’ … Penso che il destino sia colui che mi sta scrivendo una poesia – [che sia] una poesia di morte o una poesia di vita, tutto ciò che faccio in questo periodo è [provare a] sopravvivere alla colata di lava dell’aggressione.

Il bianco dei suoi occhi prende l’ultima forma,

Quindi sprizzano fuori e prendono la forma della carta.

Con proiettili; spacca la bocca degli aerei da guerra –

e strappa le zanne dell’uccisione e della distruzione.

Con proiettili;

demolisce i confini d’assedio:

e le pareti del mondo che crolla

nel suo egoismo.

Con proiettili e sangue; disegna una patria libera

e una costa lunga e sconfinata

per far addormentare i ricordi.

Il giovane poeta di Gaza, Haidar Al Ghazali, poi ucciso, scriveva:

Sono le quattro e un quarto del mattino, vado a dormire e preparo il mio corpo all’eventualità che un razzo d’improvviso lo faccia esplodere, preparo i miei ricordi, i miei sogni; in modo che diventino una notizia dell’ultima ora o un numero in un dossier, fa’ che il razzo arrivi mentre dormo in modo che non senta dolore, ecco il nostro ultimo sogno in tempo di guerra e una fine molto patetica per i nostri grandi sogni. Cerco di allontanare quest’intima paura andando a letto con una domanda: chi ha mai detto alla gente di Gaza che chi dorme non soffre?

Alcune poesie di Mosab Abu Toha

A Gaza, alcuni tra noi non possono mai morire del tutto,

ogni volta che cade una bomba, ogni volta che una scheggia colpisce le nostre tombe,

ogni volta che le macerie s’alzano sul nostro capo,

siamo svegliati dalla nostra morte temporanea.

Strade palestinesi

Le vie della mia città non hanno nome.

Se un cecchino o un drone uccide un palestinese,

diamo il suo nome alla strada.

I bambini imparano meglio i numeri

quando possono contare quante case o scuole

sono state distrutte, quante madri o padri

sono stati feriti o incarcerati.

Gli adulti in Palestina usano la carta d’identità

per non dimenticare

chi sono.

Esercizio difficile

A Gaza,

respirare è un compito,

respirare è un’operazione

di chirurgia plastica

compiuta sul proprio volto,

e alzarsi al mattino,

tentare di sopravvivere

un giorno ancora, è riemergere

dai morti.

Cose che puoi trovare nascoste nel mio orecchio

Per il Dottor Alicia M. Quesnel

I
Quando m’apri l’orecchio, toccalo

con gentilezza.

La voce di mia madre v’indugia dentro da qualche parte.

La sua voce è l’eco che mi fa ritrovare l’equilibrio

quando la testa mi gira nella soglia dell’attenzione.

Ci puoi trovare canzoni in arabo,

poesie in inglese che recito a me stesso,

o una canzone che canto agli uccelli che cinguettano nel nostro giardino.

Quando suturi il taglio, ricorda di rimettermi tutte queste cose nell’orecchio.

Rimettile dentro con ordine, come faresti con i libri sulla tua mensola.

II
Il brusio del drone,

il rombare di un F-16,

l’urlo delle bombe che cadono sulle case,

sui campi, e sui corpi,

di missili che volano altrove

rimuovili dal mio piccolo canale auricolare.

Spruzza il profumo dei tuoi sorrisi sull’incisione.

Per risvegliarmi inietta il canto della vita nelle mie vene.

Batti sul timpano con dolcezza per far danzare la mia mente,

con la tua,

mio dottore, giorno e notte.

Scrive il giovanissimo Haidar al-Ghazali:

Sono corso verso la strada,

come un bambino,

fino a quando il nostro vicino ha messo la mano di una bimba

sul marciapiede di fronte a me,

quindi non ho distolto lo sguardo,

così ho capito che ero cresciuto.

Yousef Elqedra ha scritto:

Posso scrivere una poesia

con il sangue che sgorga,

con le lacrime, con la polvere nel mio petto,

con i denti della ruspa, con le membra smembrate,

con le macerie dell’edificio, con il sudore della protezione civile,

con le urla delle donne e dei bambini,

con il suono delle ambulanze, con i resti di un albero che amo,

con tutti questi volti che cercano i loro dispersi,

con la voce del bambino Anas sotto le macerie che dice:

«Sono ancora vivo»,

con i corpi senza lineamenti,

con l’attesa, l’attesa, e ancora l’attesa!

Posso scrivere una poesia con il fragore del tradimento,

con il silenzio nudo,

con la neutralità viscosa, con l’impotenza svelata,

con il servilismo verso l’America.

Cosa può una poesia?

Ma sono soprattutto le donne ad esprimere il loro dolore in poesia, come Hend Joudah, che ha scritto: Scrivere è quello che so fare meglio e amo. Scrivere poesie in guerra per me significa dolore e speranza insieme. È come inviare messaggi che sembrano foglietti chiusi in bottiglie sperdute nel mare, come i sognatori o le persone disperate che cercano una soluzione al vuoto che sentono mentre si trovano soli su un’isola … Scrivere in tempo di guerra è un tentativo di sfuggire alle profonde fratture dell’anima. E forse scrivere poesie è un’ancora di salvezza per non soffocare in mezzo alla crudeltà che ferisce tutto ciò che è umano e fragile. Dentro e intorno a me. A partire dalla perdita di vite umane e dalla perdita di diritti ... La poesia non impedisce di uccidere, ma rifiuta di farsi complice del silenzio. Non riporta in vita i morti, ma restituisce i loro nomi, i loro volti e i piccoli sogni a loro rubati. In un mondo che cerca di cancellare i palestinesi, la poesia emerge per rimodellarli come esseri umani. La poesia da sola non basta, ma è essenziale. È il filo sottile tra l’oblio e il ricordo, tra la resa e la resistenza. È la testimonianza che non può essere cancellata, anche se i massacri continuano e le case crollano sui loro abitanti. La poesia non salva le anime, ma le rende immortali.

Ed, ancora, in Tamburi, la Joudah ha scritto:

Gli mancano, al tuo bambino, lo zainetto e i libri?

È divorato dalla paura?

Piange sconsolato per l’insegnante ucciso?

Non lo sentirà una guerra che non ha tempo

per le lacrime dei bambini.

Lei ha i suoi tamburi da rullare ...

Rullano i tamburi

Fanno venire l’amaro in bocca

Fanno a pezzi la luce del giorno

Trasformano le città in mucchi di pietre

E gli abiti puliti in un sogno ...

Tamburi nel mio paese:

si sveglia di notte dimenticandosi il sonno

per raccogliere un ultimo alito tra i respiri spenti

per aprire con le dita che bruciano

un sudario vuoto

e comporre i resti superstiti.

Sempre la la Joudah ha scritto:

Cosa significa essere poeta in tempo di guerra?

Significa chiedere scusa,

chiedere continuamente scusa, agli alberi bruciati,

agli uccelli senza nidi, alle case schiacciate,

alle lunghe crepe sul fianco delle strade,

ai bambini pallidi, prima e dopo la morte

e al volto di ogni madre triste,

o uccisa!

Cosa significa essere al sicuro in tempo di guerra?

Significa vergognarsi,

del tuo sorriso,

del tuo calore,

dei tuoi vestiti puliti,

delle tue ore di noia,

del tuo sbadiglio,

della tua tazza di caffè,

del tuo sonno tranquillo,

dei tuoi cari ancora vivi,

della tua sazietà,

dell’acqua disponibile,

dell’acqua pulita,

della possibilità di fare una doccia,

e del caso che ti ha lasciato ancora in vita!

Mio Dio,

non voglio essere poeta in tempo di guerra.

Heba Abu Nada, biochimica e scrittrice, nel 2023, dodici giorni prima di rimanere vittima di un bombardamento israeliano, scriveva a 32 anni: La notte della città è buia, tranne che per il bagliore dei razzi, silenziosa tranne che per il suono dei bombardamenti, spaventosa tranne che per la serenità della preghiera, nera tranne che per la luce dei martiri. Buonanotte, Gaza …

Ed ancora Heba Abu Nada:

Ti proteggerò

se sarai ferito o soffrirai

con le sacre scritture ho custodito

dal fosforo il sapore delle arance

e dal fumo tossico le tinte delle nubi

ti proteggerò

un giorno la polvere si disperderà

e rideranno i due innamorati morti

mano nella mano.

Durante un assalto israeliano a Gaza, ha scritto:

Là, dall’altra parte,

il tempo cambia, le ore passano e si fa più buio,

il cielo si toglie la veste sbiadita, poi arriva il mattino,

ma qui dove vivo e respiro, la vita indossa costantemente il suo vestito nero,

per piangere la fatica della mia terra,

che ha richiesto molto tempo.

Ecco, l’orologio appeso, nella mia stanza è rotto,

non solo questo, l’orologio di tutti è rotto qui,

mia madre continua a dire:

tutti stanno aspettando l’elisir,

l’abbiamo avuto con il dolore e l’agonia,

in questa terra santa dormiamo e ci svegliamo al suono dei bombardamenti e degli spari

così la prima luce del giorno sorge la sera,

illuminando il cielo con il sangue dei martiri,

qui la morte dorme non lontano da noi,

tutti camminiamo verso la libertà, verso la speranza,

camminiamo sui vetri rotti delle nostre finestre rotte,

camminiamo su pietre che un tempo erano una casa, portando storie e segreti,

camminiamo con le urla dei bambini e i gemiti delle madri che pulsano ancora e ancora nelle nostre orecchie.

Ancora una donna, Mai Serhan, ha scritto Tunnel:

Piers Morgan continua a chiedere:

“Qual è una risposta proporzionata?”

Digli che dipende. Se fosse una casa

di salici e noci, sarebbe al sicuro dai proiettili, un ricordo.

Se fosse una parola

sarebbe un verso epico, non ci sono

parole per un bambino che non sopravvive alla famiglia,

solo un acronimo, un’anomalia.

Digli che, se fosse un bambino, non dovrebbe

tormentare i suoi sogni, il bambino non

non sarebbe mai dovuto nascere da una madre, ma

dalla terra. Quel bambino è un seme, ricordaglielo,

il seme si trova sottoterra, è qualcosa di ostinato,

più profondo di un tunnel.

Fidaa Ziyad è una poetessa di Gaza che ha scritto questa poesia sotto bombardamento, nel 2023:

Vivo questo genocidio attraverso l’immaginazione di tre bambini

Il primo si è nascosto sotto le lenzuola

dicendo “Vorrei essere un fantasma

perché gli aerei non mi vedano”

Il secondo ha detto, dallo schianto delle navi da guerra

“È la voce della piovra nel mare”

E la terza, una bambina: “Vorrei essere una tartaruga

per nascondere tutti

sotto il mio guscio

O tu, la mano dell’immaginazione,

culla il sonno di questi piccoli,

preserva per loro tutti questi sogni.

O tu, la mano dell’immaginazione,

non andare oltre l’orrore della realtà.

Ecco due poesie di Haya Abu Nasser:

Sul Precipizio della Morte

Cos’è la nostra vita se non uno spettacolo malinconico

su un palco di sangue

e un pubblico di occhi sonnolenti.

Sullo sfondo,

musica blues insegue le macchine.

Passi sfrecciano avanti e indietro,

come un arco sulle corde del violino.

Tetre folle risuonano di pianti:

dove dovremmo fuggire

dagli instancabili droni.

Persone scappano come ombre,

sulla loro schiena, il macigno di Sisifo.

Stanno scalando il precipizio della morte.

Le loro dita si allungano,

alla ricerca di rami sporgenti,

dall’abisso scuro.

Morte allunga una mano di redenzione,

con un potente strattone.

Quando tiro indietro la mano,

lui mi afferra la testa e mi fissa negli occhi,

spingendomi a percorrere il suo cammino.

Sul precipizio della morte,

mi vedo sospesa da un cappio,

dondolare con grazia nel vento.

Sono libera come una lucciola che splende in una caverna,

un sorriso sul mio volto azzurro.

Le mie mani sono sciolte,

come un antica quercia,

ballando un tango con la brezza.

La mia anima è una nave di migranti,

dove morte attende in mare,

bramoso di più visitatori.

Sull’altra sponda del precipizio,

Morte sta da solo.

È vestito in un completo bianco,

mentre con cura meticolosa sistema un bouquet,

per dare il benvenuto alla sua nuova sposa.

Non Ancora Primavera

Non è ancora Primavera,

il gelo avanza lentamente

sulla terra ferita,

mormorando storie di guerra.

La pioggia è mescolata alle lacrime.

La soffice luce del sole accarezza

le mie mani venate di blu

che tremano dalla paura e dal freddo.

Non è ancora Primavera,

e l’inverno è crudele.

Ma i viticci dei giacinti si aprono

tra i muri crepati e

fuori da sotto le tombe,

guidando i piedi sfiniti verso casa.

Non è primavera,

e la guerra non è ancora finita

io desidero scrivere versi d’amore,

del tocco tenero di mani calde,

delle labbra delle ragazze che sorridono timidamente,

e il trillo allegro del canarino,

dove la brezza vortica

dei segreti degli amanti,

e lettere al profumo di orchidea

per i defunti.

Inseguivamo
i nostri riflessi sul mare di cristallo

mentre i pescatori catturavano il pesce

e i bambini ridevano sulla spiaggia.

La mia città è come un marinaio,

alla ricerca di un porto per attraccare.

Con il pennone rotto,

sta aspettando che arrivi la Primavera.

Ma, come potrà sbocciare la Primavera,

nella nostra terra dilaniata dalla guerra?

Maha Jaraba, 22 anni, che viene da un campo profughi sovraffollato al centro di Gaza: Non c’è sfogo a Gaza se non la poesia, è l’unico mezzo che porta le nostre anime ovunque vogliamo andare … Siamo in mezzo al buio, in mezzo alla desolazione, c’è solo una piccola finestra per far passare la luce, nei nostri petti, e per liberare il nostro senso di indignazione o per liberarci degli inciampi c’è solo la scrittura poesia … Non credo che sarei una poetessa se fossi nata in una città diversa da Gaza, la vita più oscura e squallida esiste solo qui. I problemi che affrontiamo, o le emozioni che vivono dentro di noi, non esistono da nessun’altra parte. E questi sentimenti sono ciò che ci ha resi poeti ... L’unica cosa che ci solleva dai guai della guerra è la poesia. Mentre le bombe cadono, scrivo. Mentre apprendo della morte della mia gente, scrivo ancora … Mi è venuto in mente di fuggire, al riparo della vita, che non è diventata una vita, oggi sono qui, domani sarò lì, e la paura è tra me e ciò che sarò … Scrivere è la vita che ci manca, e Gaza è ciò che ci ha reso poeti, è ciò che ci ha fatto scrivere poesie in lacrime, la scrittura è l’unica medicina gratuita in questa città … Voglio che il mondo sappia che siamo qui, che abbiamo dei sogni. Vogliamo un domani migliore, non solo per prenderci la nostra parte di dolore, ma anche per prenderci la nostra parte di vita.

Si comprende bene, allora, perché i Patagarri constatavano che i sionisti hanno poco da essere allegri.

Adolfo Santoro

Articoli dal Blog “Disincantato” di Adolfo Santoro