Racconto d'inverno
di Marco Celati - lunedì 23 marzo 2015 ore 12:24
L'auto procedeva zigzagando. Da tempo nella Valdera non esisteva più una strada diritta.
Ogni Comune, per smaltire rifiuti e racimolare risorse, aveva la sua discarica. Pesanti 
camion, provenienti da tutta la regione, ansimavano per i centri urbani, scaricando le loro 
mefitiche  esalazioni e intasando di traffico città e  paesi.
Ovunque erano sorti comitati di protesta. Così, grandi e piccole circonvallazioni erano 
state realizzate a tempo di record.
Da allora tutti i percorsi si svolgevano in linea curva e la zona si era trasformata in un 
gigantesco raccordo anulare.
Grandi slarghi d'asfalto tagliavano i campi che un tempo erano stati valli alluvionali. Ben 
presto i paesi e la Città "capoluogo della zona" scomparvero dalla vista e dalla memoria. 
Le tangenziali veloci aggiravano e portavano via tutto: la gente, i commerci e la sua 
donna, un giorno che gli disse "non ti amo". I migliori addii sono sempre i più brevi.
Ma non era rimasto solo con se stesso: per fortuna la sua personalità si era scissa ed ora 
un severo attivista civile e un decadente lirico intimista coabitavano in lui. 
Pioveva quasi ininterrottamente ormai da una settimana. Stava guidando verso casa.
Le strade erano lame d'acqua. I fossi, che nessuno da anni più curava, erano colmi; la 
collina e i terreni incolti precipitavano la pioggia nei  torrenti che traboccavano.  Il Fiume, 
già martoriato dalle cave di ghiaia, aveva, per l'ennesima volta, invaso le golene dove oggi 
erano case e fabbriche e premeva verso la Città fin sotto i ponti, alla confluenza con l'Arno, 
anch'esso gonfio e minaccioso. 
Dopo le grandi circonvallazioni, c'era stato il periodo degli argini. Erano stati innalzati un 
po' ovunque, lungo il corso del Fiume, sulla riva destra e la sinistra, per proteggere gli 
abitati e ora le piene si incanalavano sempre più pericolosamente e vorticosamente a valle 
verso la Città. "Dipinte in queste rive/ son dell’umana gente/ le magnifiche sorti e 
progressive"...
Il Fiume aveva un nome bello e evocativo che declinava all'imperfetto il verbo essere, fino 
a rievocare un'epoca passata: forse un richiamo, un avvertimento alla memoria e alla 
sicumera degli uomini.
C'erano alberi e la cascatella dove Nicola perse un sandalo, Nicola che perse la vita, 
c'erano tonfi dove i ragazzi si tuffavano, svestiti di camiciole e qualcuno annegò. Il Fiume 
Era lo prese, "un giorno atroce lo prese e l'immerse anzitempo nel buio".
Il tergicristallo sbatteva l'acqua scrosciante. Presto, a casa; forse la consueta veglia in 
Municipio con le autorità e i volontari allertati.
Riecheggiavano nella mente le parole finali di una pietà, raccolte chissaddove "... pietà per 
i fiumi ed i torrenti in piena/ che ci rendono la forza della distruzione/ pietà per gli uomini e 
le ferite inferte".
I ragazzi erano al sicuro? I ragazzi crescevano. I giacchetti erano diventati blusotti e ora si 
chiamavano bomber. I ragazzi erano OK. Passava il tempo. Altre generazioni.
Aveva  chiaramente dei problemi con la fenomenologia bizzarra del mondo, ma anche  un
conto in sospeso con l'essere, oltre che con la banca.
Arrivato alla tangenziale, tra gli schizzi sollevati dalle auto, scorgeva la Città dov'era la 
pioppeta, dov'era la Curigliana, la Bellaria, dov'erano tutti i ricordi che si perdono, i palazzi 
e le officine.
Allora, proprio in quel frangente, mentre imboccava la curva del raccordo e pioveva ancora 
e lui guidava e indugiava in quell'esercizio di destrutturazione, gli sopraggiunse un dubbio, 
un sospetto,  una rivelazione.
Anzi, due. Che la vita è solo ciò che accade e che forse, dopo anni di discariche, di strade 
e circonvallazioni, di argini e di alluvioni, non sarebbe stata data un'altra occasione alla 
"Città dello sconforto, dove piove, tira vento o suona a morto".
Gennaio 1994
Marco Celati
 
 
		




 
                



